INTERVISTA A GONZALO SALCEDO (PARTE 2)

Domande

  1. Come concili il tuo ruolo di missionario con la tua vita personale e i tuoi affetti?
    Sento di aver donato la mia vita agli altri. I miei fratelli e sorelle di comunità, le persone con cui condivido il cammino, sono i miei affetti. Scegliamo di non sposarci, ma posso dire che la mia è una famiglia: un luogo in cui mi sento accolto, valorizzato e, perché no, perdonato ogni volta che sbaglio.
    Senza dubbio, la mia famiglia d’origine ha avuto un ruolo importante. In un modo o nell’altro, sono stati i miei genitori a farmi conoscere i missionari, e sento che mi hanno sempre accompagnato, lasciandomi libero e, a volte, evitando di dirmi tutto per non preoccuparmi.
    Oggi i mezzi di comunicazione mi permettono di sentirli spesso, accorciando le distanze e facendo crescere ancora di più il nostro essere famiglia.
  2. Come riesci a portare il messaggio del Vangelo rispettando la cultura locale?
    La prima cosa, senza dubbio, è imparare la lingua e il modus vivendi del luogo in cui si vive. Poi, è fondamentale saper riconoscere i bisogni dell’altro.
    La mia scoperta più grande è stata capire che posso portare il messaggio del Vangelo, la Buona Notizia, anche senza parlare esplicitamente di Dio. All’inizio mi sembrava strano, forse persino assurdo, ma con il tempo ho compreso che il messaggio centrale è quello della fratellanza universale.
    In un mondo sempre più multiculturale, mi sento chiamato a ricordare che siamo tutti esseri umani con gli stessi diritti, ma soprattutto che l’altro è mio fratello, anche se ha un colore di pelle diverso o parla un’altra lingua. Sono valori presenti in ogni cultura del mondo e il mio contributo è aiutare a riscoprirli.
  3. Hai mai incontrato resistenza o ostilità? Come l’hai gestita?
    Penso che l’ostilità o la resistenza che ho incontrato – e che a volte ancora incontro – sia spesso legata al messaggio che cerco di portare. Sono consapevole che, oggi, in Italia, parlare di fratellanza universale, di accoglienza e di inclusione non sia semplice. Ci si confronta con tanti modi di pensare diversi, a volte persino contrastanti.
    Credo che il segreto sia il rispetto: accogliere l’opinione dell’altro e cogliere l’opportunità di ascoltare il vissuto e le convinzioni che la sostengono. Anche se l’altro non la pensa come me, va bene. Ci saranno sempre punti in comune da cui partire per costruire un dialogo autentico.
    Di fronte a idee spesso stereotipate, il mio invito è sempre quello di incontrare e conoscere le persone. Questo può aiutare ad abbattere i muri che la politica o l’economia spesso costruiscono.
  4. Qual è stata la lezione più sorprendente che hai imparato dalle persone che hai aiutato? Rispondo a questa domanda facendo tesoro dell’esperienza che sto vivendo a Bologna. Sono un immigrato “per motivi religiosi” e mi trovo a vivere in una terra straniera, cercando non solo di aiutare persone migranti o in situazioni di povertà, ma di costruire con loro relazioni alla pari. Non è sempre immediato, ma è necessario. Da questi fratelli e sorelle, che hanno un nome e un volto, ho imparato che, in ogni circostanza, al primo posto va sempre messa la persona. Possono esserci bisogni materiali (e per quelli possiamo fare qualcosa), ma spesso mi hanno insegnato che il bisogno più profondo è quello della relazione: ogni persona ha bisogno di essere riconosciuta come tale.
  5. Ti sei mai trovato a dover cambiare il tuo modo di comunicare la fede per adattarti a una cultura diversa?
    Come missionari siamo inviati in contesti culturali diversi dai nostri proprio perché portiamo nel cuore il desiderio di comunicare con la vita ciò che ci ha smosso per la prima volta e ciò che continuiamo a scoprire ogni giorno. Per questo, dobbiamo imparare a parlare il linguaggio delle persone che incontriamo.
    Più che adattare il modo di comunicare la fede alla cultura italiana, credo di essere chiamato ad ascoltare di cosa hanno davvero bisogno le persone. Un rischio per me è quello di fermarmi agli stereotipi, sia sugli adulti che sui giovani. Più entro nelle scuole, più imparo che il primo passo è ascoltare e riconoscere i bisogni dei ragazzi.
    Per questo, i progetti che propongo, sia nelle scuole che nelle parrocchie, prevedono sempre un momento di ascolto: il compito è creare un clima di rispetto e spontaneità, in cui le persone si sentano accolte e libere di esprimersi.
  6. Qual è la differenza più grande tra la tua vita prima della missione e quella attuale?
    Prima di diventare missionario, la mia vita ruotava attorno ai miei bisogni, a quelli della mia famiglia, al mio lavoro e ai miei hobbies. Il dono più grande che la missione ha dato alla mia vita è stato proprio quello di spalancare il mio sguardo al mondo e agli altri.
    Penso di poter sintetizzare tutto questo con il concetto di Ubuntu: dopo l’incontro con i missionari, non potevo più pensare di essere felice solo io senza preoccuparmi della felicità degli altri.
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Alessandro Golinelli classe 3CL

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