
INTERVISTA A GONZALO SALCEDO (PARTE 1)
Gonzalo Salcedo è un missionario peruviano della Comunità Missionaria di Villaregia.
Domande:
- Qual è stata la scintilla che ti ha spinto a diventare missionario?
La scintilla è stata una domanda… qualcuno ha saputo pormela nel momento giusto. Era il 2005, avevo 23 anni, avevo fatto da poco la Cresima e iniziavo pian piano a impegnarmi in parrocchia. È così che ho conosciuto a Lima una missionaria peruviana, appena rientrata dall’Italia, con la quale ho iniziato a collaborare per un censimento diocesano. Durante un momento di confronto, lei mi ha chiesto: “Ma a te non piacerebbe fare il missionario?”
Una domanda che nessuno mi aveva mai fatto. Probabilmente aveva percepito in me un certo entusiasmo, lo stesso che io avevo iniziato a sentire qualche mese prima. Quella domanda ha risuonato in me in modo particolare…
- Come hai capito che questa era la tua vocazione e non solo un desiderio momentaneo?
Penso che sin dall’inizio avessi percepito qualcosa di nuovo in me. Il mio modo di vedere la vita, le mie relazioni, il mio tempo: ero sempre più rivolto agli altri e sempre meno concentrato su me stesso.
All’epoca lavoravo già come insegnante e, sebbene avessi scelto quella professione fin da quando avevo 7 anni, lo avevo fatto perché mi piaceva l’idea di dedicare la mia vita a fare qualcosa per gli altri. Il mio lavoro me lo permetteva, ma a un certo punto non mi bastava più. L’esperienza del censimento diocesano mi aveva fatto conoscere la realtà di molte persone e dentro di me era scattato un desiderio ancora più profondo di fare qualcosa di più. Oggi, dopo 20 anni, capisco che non si trattava semplicemente di fare qualcosa in più per gli altri, ma di essere per gli altri.
A dire il vero, forse non è stato quello il momento in cui ho sentito “la chiamata”; quando avevo 15 anni, i missionari di Villaregia erano venuti nella mia scuola. Avevano una chiesa proprio di fronte e avevano allestito una mostra fotografica sui problemi del mondo. Ricordo di aver pensato: “La realtà è durissima per tante persone nel mondo, ma io posso fare la mia parte qui e ora, studiando, lavorando…”
La vocazione è un dono, una chiamata. Forse era già stata seminata in quel momento, ma ero troppo giovane per capirlo. Ci sono voluti altri dieci anni perché ne prendessi davvero coscienza.
- Hai mai avuto dubbi sulla tua missione? Come li hai affrontati?
All’inizio, credo che il dubbio principale fosse il sentirsi inadeguato. Non conoscendo bene il loro stile di vita, forse immaginavo chissà cosa riguardo alla loro missione. Ma quando ho iniziato a conoscerli e a frequentarli, ho capito che, in fondo, erano persone normali come me (ride).
Ho trascorso i primi cinque anni di cammino in Perù, nel mio contesto, parlando la mia lingua e vivendo tra la mia gente. Per questo motivo, non ho avuto grandi dubbi. Tuttavia, dal 2013 mi trovo in Italia, e l’esperienza qui è stata diversa. Qui la fede si vive in modo differente e, inizialmente, mi sono chiesto se la mia presenza fosse davvero necessaria o se sarei stato più utile altrove.
In questi ultimi anni, però, ho capito che ciò che potevo dare e il modo in cui potevo farlo erano unici. La missione, infatti, non dipende tanto da ciò che si comunica o si dice, ma dallo stare in mezzo alla gente.
- Qual è stata la sfida più grande che hai affrontato sul campo?
Forse la sfida principale per me è stata imparare a uscire da me stesso per andare verso l’Altro. È un esercizio quotidiano: imparare a essere me stesso senza imitare nessuno.
Senza dubbio, la vita in comunità è stata un dono. Vivere con persone diverse, sia per nazionalità che per carattere, mi ha insegnato ad apprezzare i doni degli altri e a riconoscere anche i miei.
Ho scritto “Altro” con la maiuscola perché credo che ogni persona che incontro – con la sua storia e il suo volto – mi rimandi a Dio, l’Altro, indipendentemente dal fatto che creda o meno. Ho imparato presto a interagire con il cosiddetto “mondo non credente” e posso dire che mi sento a mio agio. Anzi, alcune delle relazioni più belle che ho costruito negli ultimi cinque anni sono state con persone proprio dichiaratamente atee.
È la nostra umanità che ci accomuna.



Golinelli A. classe 3CL
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